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Arte contemporanea e arte moderna, ha ancora senso distinguerle?

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La lettera che pochi giorni fa il critico d’arte Julian Spalding ha inviato alla National Gallery di Londra per invogliare il museo a esibire opere datate oltre il 1900, ha innescato una profonda riflessione sull’incasellamento dell’arte contemporanea in un periodo temporale ben preciso. Ha ancora senso, quindi, fare distinzioni con l’arte moderna e, soprattutto, esporle in contesti così diversi? I pensieri di Massimo Gianquitto.

 

Arte contemporanea e arte moderna, come cambiano i linguaggi

 

Da quando l’arte come forma espressiva ha iniziato a uscire dai suoi confini utilizzando alcuni elementi di altre discipline, per esempio includendo la danza, la musica o il video – che non appartengono alle arti visive tradizionalmente intese e che hanno preso la scena nell’arte alla fine degli anni Cinquanta con gli Happening, le performance e gli Environments – la nostra epoca ha visto l’affiorare di tanti approcci tecnici. Sempre più spesso si parla infatti di “cross pollination”, ovvero un’impollinazione incrociata tra linguaggi.

Muovendosi da un’arte all’altra cadono le gerarchie del passato per cui l’uso di un’azione effimera come medium ha lo stesso valore di un video, e un’installazione di una scultura, pur con la sopravvivenza in parallelo di altri mezzi tradizionali. L’arte è in continuo divenire perché racconta dell’essere umano in evoluzione, così le scoperte invecchiano rapidamente e rendono obsoleto ciò che anni prima era considerato un mezzo nuovo.

La modernità e la contemporaneità si confondono spesso e non vi è condivisione di giudizio sul loro avvicendamento cronologico. Nel linguaggio questi due termini vengono spesso utilizzati come sinonimi anche se (come nell’architettura) indicano periodi, movimenti e stili completamente differenti tra di loro. Arthur Coleman Danto, filosofo e critico d’arte tra i più influenti del XX secolo che ha incentrato parte dei suoi studi sulla periodizzazione, identifica il moderno dal 1880 fino agli anni Sessanta del XX secolo, ovvero quando i connotati stilistici dell’arte moderna diventano riconoscibili perché l’arte contemporanea rivela un profilo molto diverso.

 

La visione di Arthur Coleman Danto

 

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Marina Abramovich

 

Secondo lui l’epoca contemporanea, a differenza di quella moderna, inizia in sordina senza slogan né simboli, senza consapevolezza di quanto stia accadendo. L’arte contemporanea infatti non si schiera contro quella del passato e non la avverte neanche come un limite da cui emanciparsi. Le diverse espressioni artistiche sono a disposizione dell’artista, libero di attingere dalla tradizione universale e dalle avanguardie e non creano un’uniformità stilistica, rifuggendo un linguaggio uniformato.

L’arte contemporanea non ha nessuna direzione univoca, ma modalità pluralistiche di esprimersi, sia nelle intenzioni che negli strumenti e modalità di realizzazione delle opere: tutto può diventare arte. Non esistono forme proibite, ideali unici di purezza e perfezione, neanche una forma autentica che l’arte deve incarnare in ogni momento.

 

Ma quando inizia l’arte contemporanea?

 

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Piero Manzoni

 

Massimo Gianquitto indica di restringere ulteriormente il periodo, affermando che l’arte contemporanea inizia con le asserzioni dirompenti di Marcel Duchamp. È infatti con lui che la bellezza finisce di essere un requisito dell’opera d’arte grazie al Ready Made, che va oltre il concetto di arte colta, educata, formata. L’opera dell’artista non consiste nella sua abilità manuale ma nelle idee che riesce a proporre. Nel 1917 Duchamp trasforma un orinatoio, prodotto proveniente dal mondo industriale, in un’opera d’arte assegnando il titolo di “Fontana”. Pone così agli spettatori un quesito di enorme vastità, che segna in modo irrimediabile un confine tra prima e il dopo nell’arte, formando una crepa profonda. La scultura tradizionale è spazzata via in un secondo così come avvenne qualche anno prima (1913) con “Ruota di Bicicletta”.

Adottando questo criterio, come sostiene il critico Francesco Bonami nel suo articolo da “Dall’orinale all’orale: la fine dell’arte contemporanea” – l’orinale è quello di Duchamp del 1917, l’orale è quello dell’artista tedesco Tino Sehgal – le opere di quest’ultimo artista diventano concettuali. Persone che parlano dentro un museo, raccontando storie o spiegando delle teorie, facendo soltanto dei gesti istruzione d’uso fornite dall’artista: qui si parla di dissoluzione dell’opera d’arte e di fine della Contemporaneità, che forse ritorna proprio all’inizio, alla tradizione orale. Prima delle immagini, quando le persone si raccontavano storie.

Dunque, l’idea paventata da Julian Spalding per la National Gallery di Londra si basa sull’assunto del critico d’arte, che afferma: “prima o poi ci sarà una crisi e ripenseremo in modo radicale a come guardiamo le immagini del passato”. Alex Kidson, curatore d’arte della Walk Art Gallery di Liverpool, secondo Il Post è d’accordo e consiglia di spostare la soglia del 1900 almeno alla fine del secondo conflitto mondiale. Qualunque siano le date che verranno concordate, ripensare il rapporto tra arte contemporanea e arte moderna può essere un’interessante chiave di lettura per reinterpretare il passato e immaginare il futuro di questa disciplina.