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Milano Design Week, alla ricerca dell’essenza perduta

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Come ogni anno, a seguito della manifestazione milanese dedicata al design, Massimo Gianquitto, CEO di Level Office Landscape, analizza gli spunti osservati in fiera e al Fuorisalone, fornendo inedite chiavi di lettura e temi su cui riflettere.

 

La Milano Design Week torna a essere “internazionale”

 

Alla fine di ogni edizione, c’è sempre molto da discutere sulla Milano Design Week. Una settimana dedicata al Design, non solo per parlare dei tanti prodotti presentati al Salone del Mobile, ma anche per partecipare a eventi e installazioni.

L’esposizione di Rho Fiera è il luogo principe in cui le aziende del settore mostrano al meglio i risultati raggiunti nell’ultimo anno in termini di ricerca tecnica, estetica, produttiva e delle sfide – vere o dichiarate- affrontate in termini di sostenibilità ed eticità. Questo sarebbe già abbastanza se non si aggiungessero apertivi, party, talk, mostre, che coinvolgono, in evidente competizione e confronto, la città con il Fuorisalone.

Un carattere che rende unica e originale l’esposizione italiana nel mondo, tornata alla normalità (di nuovo ad aprile e internazionale, come scrive il giornalista Aurelio Magistà sull’inserto di Repubblica).

 

Interpretare la manifestazione

 

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Salone del Mobile

 

Eppure, anche per un occhio esperto del settore, è ormai difficile interpretare e comprendere il senso di ciò che vede, sente, vive come esperienza, poiché tutto si fonde e perciò si confonde. Il pubblico prende parte a questo spettacolo dell’intrattenimento, senza tuttavia essere in grado di leggerne i fenomeni e di comprendere la visione che accomuna le diverse proposte.

Una visione che mostra di fatto solo prodotti, ma dove mancano le idee, le tensioni che interpretano i cambiamenti e fanno immaginare il futuro. Insomma, quelle cose che darebbero un autentico significato all’esposizione. Sfuggire dall’omologazione dell’offerta, indicare le differenze e riconoscere l’unicità dei progetti sarebbe davvero importante.

La quinta edizione di Alcova, che negli spazi dell’ Ex-Macello di Porta Vittoria ha presentato i progetti di oltre 90 progettisti, è forse l’unica location dove si è tentato di esplorare direzioni differenti e complementari alla disciplina. In 90mila hanno varcato la soglia dello spazio, dopo lunghe ore di attesa in fila, per rivivere la memoria e l’identità del luogo grazie alla forza culturale degli oggetti esposti.

Dalla ricerca e sperimentazione sullo sviluppo dei materiali, alla sostenibilità e alle nuove tecnologie, dal contemporary craft al design sensoriale, Alcova ha presentato i progetti di istituzioni, scuole, studi affermati e talenti emergenti provenienti da Europa, Cina, Giappone, Corea, Stati Uniti, India e Turchia.

 

Il punto di vista di Ross Lovegrove 

 

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Alcova

 

A rendere più complicata la situazione si aggiungono dichiarazioni di affermati designer che, desiderosi di esplorare altri ambiti, cercano altre e più profonde motivazioni per proseguire. È il caso dell’inglese Ross Lovegrove, maestro delle forme organiche applicate al disegno industriale.

In un’intervista rilasciata al mensile Living di aprile ha dichiarato: “Il design ha senso solo se ha un valore artistico. Mi è sempre interessato esplorare nuove strade. Mi fa sentire vivo e onesto”.  E proprio lui, che per anni ha progettato per aziende di arredo, ma anche per Sony, Apple e Lvmh, si interroga su cosa sia diventato il settore.

Lovegrove riflette sull’essenza del progetto, di cui nessuno più si domanda quale sia il senso. Sono pochi coloro che, come lui, percorrono strade inusuali e faticose per realizzare ciò che sulla carta può sembrare impossibile. “Creare forme difficili, se non impossibili, è stato un meccanismo inconscio per arrivare alla scultura, che ha un’altra longevità rispetto all’oggetto di consumo”, conclude il designer.

 

Milano Design Week, tra arte e design

 

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Alcova

 

Arte e lusso rafforzano il loro legame con il design, come se di colpo fossimo tornati indietro di un secolo. Più precisamente al Movimento dell’Arts and Crafts di William Morris e all’Art Nouveau, quando si percepiva la volontà di rendere le case e gli edifici luoghi ideali in cui vivere, senza che vi fosse alcuna distinzione tra arte e vita, grazie ad artigianato e collaborazioni con artisti.

Come nota l’architetto Stefano Boeri, pluripremiato e Presidente della Triennale di Milano, autore di “Swing” all’interno dello spazio The Amazing Playground nel cortile dell’Università Statale di Milano: “oltre all’aspetto ambientale, c’è quello sociale. Relativamente al prodotto industriale, è la questione del fine vita degli oggetti a essere ormai centrale. Sono tutti quesiti fondamentali e interconnessi dello stesso problema, ma rispetto alla sostenibilità sociale, se pensiamo alla povertà crescente della popolazione mondiale, dovremmo prendere atto che non c’è un design pensato per chi vive questa condizione. Tutta la produzione attuale, per quanto di altissima qualità, si rivolge a un mercato di nicchia, con un design ad alto costo, mercato che per altro negli ultimi anni ha avuto una forte accelerazione”.

C’è quindi la necessità di sviluppare un design sociale attraverso proposte e progetti capaci di rendere visibile l’invisibile. Come gli strati di popolazione che vivono in modo sempre più precario: un’altalena per ripensare la citta, facendosi cullare da una risposta alternativa alle retoriche della sostenibilità e alla sovrapproduzione.

L’essenza della questione è tutta in questa dichiarazione. Se tutto è diventato design, in nome del solo mercato, allora questo tipo di “design” è davvero morto. Quando un progettista cool e all’ultima moda come Fabio Novembre, nella rubrica “L’intervento” del supplemento del Corriere della Sera, titola: “Libertà-responsabilità, il binomio che ci dimentichiamo”, allora è segno che sul design è necessario tornare a riflettere.

 

Immagini courtesy Alcova e Salone del Mobile